Questione di pseudonimo?
Forse sì, forse no.
Di scrittori che usano uno o anche più pseudonimi ce ne sono tanti, più o meno famosi, e poi c’è il caso per eccellenza.
Il suo nome è sulla bocca di tutti: Elena Ferrante.
Forse sì, forse no.
Di scrittori che usano uno o anche più pseudonimi ce ne sono tanti, più o meno famosi, e poi c’è il caso per eccellenza.
Il suo nome è sulla bocca di tutti: Elena Ferrante.
Se pensate che sia ancora una singola autrice vi sbagliate di grosso.
Elena Ferrante è una delle più grandi truffe realizzate dall’editoria a pagamento italiana.
Come potete leggere nello screenshot che ho inserito qui sopra, la Ferrante viene definita una scrittrice napoletana e una tra le personalità più influenti del mondo.
Boom, bugia!
Adesso la questione non è se sia giusto o meno usare uno pseudonimo.
Per me è giustissimo, non ci sono problemi.
Il problema è un altro: è giusto che alcune case editrici (fra cui la E/O, che pubblica i libri dell’autrice) e la Rai si mettano a pagare delle persone (si parla di scrittori e giornalisti dai nomi altisonanti, peraltro) per creare un fake che farà loro guadagnare milioni di euro evadendo le tasse con dei libri davvero brutti, con una miniserie televisiva e articoli di giornale?
Per me è giustissimo, non ci sono problemi.
Il problema è un altro: è giusto che alcune case editrici (fra cui la E/O, che pubblica i libri dell’autrice) e la Rai si mettano a pagare delle persone (si parla di scrittori e giornalisti dai nomi altisonanti, peraltro) per creare un fake che farà loro guadagnare milioni di euro evadendo le tasse con dei libri davvero brutti, con una miniserie televisiva e articoli di giornale?
No, certo che no.
Ma si sa, l’Italia è un paese strano che spesso funziona al contrario.
Esistono fior di leggi per proibire la truffa ma se questa parte dai piani alti e i soldi finiscono a rimpinguare le tasche dei ricconi stronzi, allora la truffa non è tale ma diventa un fighissimo caso letterario.
Fighissimo...
Aspettate che ho usato un aggettivo che sta agli antipodi dei libri della Ferrante.
La tetralogia dell’Amica geniale è uno degli esempi di editoria più bassi che sia mai esistito dal Duemila a questa parte ed è anche un peccato considerando i nomi che in teoria si celano dietro al nome di Elena Ferrante.
Sono libri scritti male, pieni di falsa retorica e luoghi comuni con continui rimandi ad autori famosi dei quali però non viene nemmeno colta o usata un minimo della loro essenza che avrebbe in qualche modo potuto rendere questo mappazzone un po’ migliore.
Ovvio che abbiano mietuto un grande successo negli Stati Uniti che sono l’archetipo dell’assurdo: sfornano autori davvero geniali che mietono successi impareggiabili all’estero (inutile che vi dica i nomi della top ten, vero?) ma poi amano le merdacce più infime.
E pure la miniserie dà ribrezzo: recitata in napoletano (e basta, dopo Gomorra non se ne può più! Siamo in Italia, parliamo italiano!) con un’atmosfera da neorealismo che fa il verso pessimo al film C’era una volta in America, due bambine che recitano con la verve di due mozzarelle e i soliti stereotipi (bionda contro bruna, riflessiva contro emotiva, timida contro figa, buona contro stronza…) e per concludere un’Alba Rohrwacher piatta come poche che fa finta di essere Laura Morante, riuscendo nell'impresa di recitare nel ruolo peggiore della sua carriera.
E per tornare a Elena Ferrante, aveva ragione Franco Fortini quando scriveva nel suo libro Contro l’industria culturale. Materiali per una strategia socialista che “non si dà vita vera se non nella falsa”, ribaltando le parole di Theodor W. Adorno il quale invece sosteneva che “non si dà vita vera nella falsa”.
Mi dispiace, caro Adorno, ma purtroppo al giorno d’oggi ha ragione Fortini.
La Ferrante è l’esempio eclatante di come la falsità e il raggiramento del prossimo siano le migliori credenziali per sfondare nel mondo degli affari e non solo.
Più sei falso, meglio è.
Almeno per alcuni.
Sono libri scritti male, pieni di falsa retorica e luoghi comuni con continui rimandi ad autori famosi dei quali però non viene nemmeno colta o usata un minimo della loro essenza che avrebbe in qualche modo potuto rendere questo mappazzone un po’ migliore.
Ovvio che abbiano mietuto un grande successo negli Stati Uniti che sono l’archetipo dell’assurdo: sfornano autori davvero geniali che mietono successi impareggiabili all’estero (inutile che vi dica i nomi della top ten, vero?) ma poi amano le merdacce più infime.
E pure la miniserie dà ribrezzo: recitata in napoletano (e basta, dopo Gomorra non se ne può più! Siamo in Italia, parliamo italiano!) con un’atmosfera da neorealismo che fa il verso pessimo al film C’era una volta in America, due bambine che recitano con la verve di due mozzarelle e i soliti stereotipi (bionda contro bruna, riflessiva contro emotiva, timida contro figa, buona contro stronza…) e per concludere un’Alba Rohrwacher piatta come poche che fa finta di essere Laura Morante, riuscendo nell'impresa di recitare nel ruolo peggiore della sua carriera.
E per tornare a Elena Ferrante, aveva ragione Franco Fortini quando scriveva nel suo libro Contro l’industria culturale. Materiali per una strategia socialista che “non si dà vita vera se non nella falsa”, ribaltando le parole di Theodor W. Adorno il quale invece sosteneva che “non si dà vita vera nella falsa”.
Mi dispiace, caro Adorno, ma purtroppo al giorno d’oggi ha ragione Fortini.
La Ferrante è l’esempio eclatante di come la falsità e il raggiramento del prossimo siano le migliori credenziali per sfondare nel mondo degli affari e non solo.
Più sei falso, meglio è.
Almeno per alcuni.