La vecchia scuola, la nuova scuola.
Per chi come me fa parte del mondo dell’editoria
sa di cosa sto parlando.
Per chi invece è nuovo dell’argomento lo
spiego subito: si tratta del modo in cui uno scrittore sceglie di narrare la
sua storia.
La vecchia scuola significa scrivere
utilizzando il passato remoto, la nuova scuola predilige invece il presente
indicativo.
Al di là dei miei gusti personali, più
che di questo secondo me si dovrebbe parlare di scrivere bene o scrivere male.
Ci sono infatti libri che non c’è
tecnica narrativa che tenga, sono scritti male e non si riescono a leggere, e
libri che invece ti catturano dalla prima riga.
Qual è quindi il nocciolo della
questione?
È una domanda che gira spesso, soprattutto
fra i recensori: saper scrivere è un dono oppure è una capacità che si
acquisisce?
Molto recensori sono della seconda
opinione, al pari di molti autori: sono convinti che basta partecipare a un
corso di scrittura creativa e si esce Dante Alighieri.
Io sono una di quei recensori che invece
la pensa al contrario.
Scrivere è un dono.
Punto e a capo.
È come saper suonare uno strumento
musicale, come danzare, come mettersi su un palco o dietro una cinepresa e
tirare fuori un capolavoro, come prendere in mano uno scalpello e tirare fuori
il David, come mettersi ai fornelli e cucinare un piatto da chef.
È un dono, che poi si affina con la
lettura, l’esercizio e l’esperienza, ma resta un dono.
O c’è, o non c’è.
Ecco perché sono contraria alle famose
scuole di scrittura creativa, un’altra delle tante boiate che gli italiani
incapaci hanno dovuto copiare dagli americani volponi.
Cosa ti insegna un corso di scrittura
creativa?
Niente, se non come venderti come una
ragazza di facili costumi nel campo dell’editoria, ma come sanno anche gli
asini basta già pagare una casa editrice tradizionale per vedersi pubblicato il
proprio libro.
”A corso concluso il tuo progetto potrà
diventare un Libro!”, così ipnotizzano gli aspiranti scrittori” e visto che “il
denaro puzza e gli scrittori sanno come raccontarlo, di solito alle scuole di
scrittura c’è l’obbligo di frequenza e doverose borse di studio.
Domandina petulante: ma le scuole di
scrittura non potrebbero nascere dentro le Università statali, a gratis? Altra
domandina petulante: a cosa servono tutte queste auree scuole gestite da
scrivani con l’aureola? A nulla.
Anzi, no. Il mio ex allievo – uno
dritto – ha capito tutto. Servono a conoscere gente. Si paga per diventare
amico dell’editor o dello scrittore ben introdotto negli intestini dell’editore
forte.
Per lavorare bisogna avere degli amici.
Per pubblicare bene bisogna avere dei padrini. Tanto, una puttanata in più o in
meno in libreria, chi se ne accorge?”
(Fonte)
E dunque?
Dunque non so.
Penso che questa gente che si aggira con
quaderni, cellulare e tablet in mano, che sgrana gli occhi davanti agli autori
e che è disposta a fare tutto pur di avere “una dritta” in realtà non sia gente
capace di scrivere.
Possono farlo per piacere personale, ma
sono solo imbrattacarte.
Come diceva Benedetto Croce: “si ode
spesso taluni asserire di avere in mente molti e importanti pensieri, ma di non
riuscire a esprimerli. In verità, se li avessero davvero, li avrebbero coniati
in tante belle parole sonanti, e perciò espressi. Se, nell’atto di esprimerli,
quei pensieri sembrano dileguarsi o si riducono scarsi e poveri, gli è che o
non esistevano o erano soltanto scarsi e poveri.”
Ma esiste ancora lo scrittore vero?
Sì, e io ne ho scoperti tantissimi
soprattutto attraverso le case editrici non a pagamento e self.
Lo scrittore vero, quello che scrive
cascasse il mondo, quello che si sveglia di notte perché gli è partito l’embolo
dell’ispirazione, quello che non scende a patti con nessuno per pubblicare,
quello che non crede nei corsi di scrittura creativa (spesso nemmeno sa cosa
sono) e che muore letteralmente forgiando la sua opera esiste ancora.
Basta trovarlo.